DELITTO TENTATO – ART. 56 C.P.
La nozione di tentativo richiama, inevitabilmente, il concetto di reato consumato, cioè, il fatto che presenta tutti gli elementi previsti dalla norma incriminatrice.
Per individuare l’ambito di operatività della figura in esame, occorre precisare che ogni reato è il risultato di un particolare procedimento, costituito da quattro fasi: quella dell’ideazione del reato, quella della preparazione dello stesso, quella esecutiva ed, infine, la fase della consumazione.
L’attività che non va oltre la prima fase non assume rilevanza per il diritto penale, neanche nella forma del tentativo.
Medesima esclusione (non configurabilità del tentativo), sebbene per opposti e più evidenti ragioni, va fatta in ordine alla quarta fase attinente alla consumazione del reato.
Ne deriva che l’ambito di rilevanza del delitto tentato risiede nella parte intermedia dell’iter criminoso di un fatto illecito.
Riguardo al fondamento giuridico della punibilità del tentativo, esso va individuato nella combinazione dell’art. 56 c.p. con le singole norme del diritto speciale.
Più precisamente, l’art. 56 c.p. svolge una funzione c.d. estensiva dell’ordinamento penale, rendendo tipiche tante ipotesi di delitto tentato quante sono le figure di reato consumato.
I requisiti richiesti, ai fini della punibilità del tentativo, dall’art. 56 c.p. sono:
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l’idoneità degli atti ovvero che essi mirino alla commissione di un delitto;
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l’univocità degli atti ovvero che essi siano diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto;
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l’elemento soggettivo, per cui l’unico atteggiamento psicologico possibile, nel tentativo, è il dolo (ma solo il dolo diretto).